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Il sottile e inscindibile rapporto tra luogo e progetto. Introduzione a: Giuseppe Ansovino Cappelli, Roma prima Roma dopo Roma, Kappa, Roma 2004
Autore: Michele Costanzo
Saggi Roma prima Roma dopo Roma, di Giuseppe Cappelli, appartiene a quel filone della saggistica architettonica in cui il riferimento a una città è motivato da una precisa scelta concettuale, volta ad operare un doppio livello di lettura di tipo critico e propositivo: da un lato, l'esame, l'approfondimento di specifiche tematiche della progettazione, che vanno da quelle a scala urbana fino a più circoscritte problematiche concernenti l'oggetto architettonico (le caratteristiche del processo di crescita di un insediamento, del suo disegno, della sua struttura spaziale, e gli aspetti formali delle presenze edilizie che lo compongono, la specificità dei materiali che lo definiscono, e così via); dall'altro, una lezione da trarre per il presente e un inquadramento teorico per indirizzare le scelte dell'immediato futuro.
Numerosi sono i testi che si sono susseguiti i questi ultimi decenni orientati su tale indirizzo speculativo; alcuni dei quali di particolare interesse per la ricerca architettonica e per l'influenza esercitata in ambito teorico-progettuale, com'è il caso di: Complexity and Contraddiction in Architecture, di Robert Venturi (1966), Immagine di Roma, di Ludovico Quaroni (1969), Los Angeles. The Architecture of Four Ecologies, di Reyner Banham (1971), Lerning from Las Vegas, di Venturi, Denise Scott-Brown e Steve Izenour (1972), Delirius New York, di Rem Koolhaas (1978).
Sulla base di quanto affermato, anche il libro di Cappelli si struttura su un duplice registro, organizzato su un singolare impianto testuale che contempla l'impiego di due diversi 'generi' di trattazione: la testimonianza personale degli eventi 'narrati' e la loro elaborazione, e dilatazione in un quadro analitico più generale, in chiave teorico-critica.
Nella prima parte del testo, prevale la curiosità dell'autore di indagare, di definire i tratti identitari e le connotazioni in cui si è andata contrassegnando la produzione edilizia romana dell'ultimo dopoguerra e che hanno dato origine ad un indirizzo espressivo assolutamente originale, la cui principale prerogativa è stata quella di aver saputo individuare un punto di coagulo, ideale e formale a un tempo, da cui ha preso l'avvio un'importante espressione corale, in sé unitaria e organica. A questa sorprendente operazione di sintesi, si deve aggiungere, ha certamente contribuito la consapevolezza, da parte dei progettisti, del momento storico che stavano vivendo e dell'impegno etico di cui si dovevano far carico (a cui, peraltro, l'obiettivo sociale della ricostruzione conferiva un immediato riscontro con la realtà).
«Gli architetti che hanno operato a Roma nei primi anni del dopoguerra», scrive Cappelli, «hanno cercato di evitare forme e immagini associabili al trascorso regime fascista, mettendo al bando riferimenti all'antica Roma, classicismi e neoclassicismi, ma anche il Futurismo e i linguaggi razionalisti più simili alle avanguardie europee».
Questa spinta al rinnovamento porterà allo sbocco di un nuovo linguaggio, le cui valenze espressive l'autore definisce attraverso l'indicazione di alcune opere, a cui attribuisce un valore seminale: il quartiere Tiburtino (1949-54)[1], il quartiere Valco San Paolo (1949-50)[2], il Tuscolano (1950-52)[3], l'Unità d'abitazione orizzontale (1950-54)[4], le Fosse Ardeatine (1945-49)[5], le palazzine degli anni Cinquanta, fino a giungere al quartiere Corviale (1972-82)[6].
Una prima importante fonte di sollecitazione creativa, nella ricerca di una diversa maniera di esprimersi in ambito architettonico, verrà individuata nella complessa morfologia che conforma buona parte del territorio romano lungo la valle del Tevere, come pure, nella permanenza di vestigia edilizie storiche in esso densamente disseminate. «Possiamo dire che i caratteri formali di certe palazzine romane», osserva Cappelli, «sono associabili a sistemi di linee e piani che si sono determinati o, come risultato di fenomeni naturali (il solidificarsi delle lave e l'erosione dei fiumi) oppure, come intreccio tra questi e il lavoro dell'uomo per costruire la propria casa. Sottili equilibri di tensioni tra rette e spezzate, piegature, smussi, aggetti, ibridazioni; forma e antiforma, ordine e disordine, regola ed eccezione. Similmente, esistono edifici prevalentemente in mattoni, che sono associabili alle immagini tipiche del rudere antico e prestigioso, sia alle numerose rovine di semplici case ancora oggi presenti nel centro di Roma [...], con le loro scalettature, fratture, squarci, contrafforti, puntelli e suture di vario genere».
Al determinante apporto dato dalla suggestione di un "paesaggio di forre", come lo definisce Paolo Portoghesi, «fatto di valli profonde racchiuse da pareti di tufo come un ambiente o una strada sono racchiusi tra mura costruite dall'uomo»[7], a tratti arido e scarso di vegetazione e a tratti rigoglioso e fragrante di profumi, e di ruderi che, «[...] tornati ad essere pietra», come scrive Albert Camus, «e perdendo il lustro imposto dall'uomo, sono rientrati nella natura»[8], pure decisiva sarà la scelta 'neorealista' dell'impiego di alfabeti radicati nella tradizione popolare e contadina, arricchiti successivamente dall'apporto del neoempirismo scandinavo attraverso la lezione degli svedesi Backström e Reinius.
Così, per Cappelli, è la forza figurativa di questa realtà naturale-artificiale, unita all'impiego di un etimo che (almeno in un primo tempo) rifugge da ascendenze borghesi, ad aver indirizzato l'azione progettuale, di un nucleo di architetti di diversa formazione, tra i quali l'autore indica come figure dominanti: Mario Ridolfi, Ludovico Quaroni, Luigi Moretti, Angelo Di Castro, Mario Fiorentino e Adalberto Libera. Ma sarà l'intenso processo realizzativo, in buona parte promosso e sostenuto dal piano dell'Ina-Casa, nonché lo stesso prendere forma delle idee, a trasmettere ai protagonisti di questa appassionata vicenda una sorta di consapevolezza di sé e del proprio fare.
L'intento dell'autore è, dunque, quello di far affiorare dalla oggettiva molteplicità espressiva dei diversi apporti, attraverso lo scritto e il ricco apparato di immagini che ne compongono il contrappunto, un'omogenea struttura d'insieme di tipo formale e grammaticale. «L'ipotesi è quella che vi siano le condizioni», scrive Cappelli, delineando, in questo modo, l'assunto del libro (che verrà poi sviluppato), «per poter associare tali strutture ad un sistema di forme particolarmente resistente nel tempo e riconoscibile anche in situazioni storiche diverse».
La tesi annunciata prenderà corpo nella seconda parte del testo, presentata dall'autore attraverso l'immagine di un 'ribaltamento' dell'esperienza (ormai) passata, sul presente; e questo, perché egli vede come attuali i valori da essa espressi, ancora in grado di svegliare nuove sensibilità creative.
Così, il concludersi (intorno agli anni Settanta) di quell'esperienza costruttiva profondamente legata al luogo, secondo l'autore non deve essere ricondotta ad un naturale esaurirsi della sua capacità a provocare spinte ideative o, più semplicemente, a rispondere alle mutate esigenze di una società in continuo mutamento, ma piuttosto alla lenta erosione della sua essenza figurativa, avvenuta con la crescita stessa della città, una cancellazione dei suoi tratti 'fisionomici' che già negli anni Sessanta manifestava i suoi devastanti segni. Così, molti architetti, come lo stesso autore ricorda, si dedicheranno ad una esplorazione puntuale della campagna e dei paesi del Lazio alla ricerca dell'immagine di "Roma prima di Roma". «L'esperienza di queste ricognizioni sistematiche», scrive Portoghesi, «alla ricerca di una nozione di paesaggio non riducibile a una serie di immagini ottiche, sebbene troncata troppo presto, molto prima che la macchia d'olio intorno a Roma raggiungesse i confini del Lazio, è rimasta una tappa fondamentale della mia formazione di architetto»[9].
In queste considerazioni, non è difficile rileggere in trasparenza la proposizione, da parte di Cappelli, di una sorta di "manifesto retroattivo" che potrebbe accostarsi, ma con intenzionalità del tutto opposte, rispetto all'operazione intellettuale indicata da Koolhaas attraverso la lettura di New York colta nella sua fase formativa e, poi, reinterpretata e riproposta ad un mondo ormai globalizzato come un modello di realtà urbana nuova. La visione dell'architettura che prospetta Cappelli, in effetti, è il rovescio di quella di Koolhaas in quanto anti-globalista, e così fortemente legata al luogo da porsi come una sua forma d'espressione totalizzante.
Gli esempi che l'autore porta sono assai diversi tra loro, perlopiù, di progettisti stranieri, quasi a voler dimostrare l'attualità del messaggio e la capacità della sua diffusione in territori lontani: una possibilità, per quell'idea ante litteram di paesaggio ibrido che trova nella fontana di Trevi di Nicolò Salvi la sua immagine-simbolo[10], di testimoniare la persistenza di una forma di rapporto tra luogo e progetto, anche se in contesti e temporalità diverse.
E' il caso di Site, che Cappelli ricorda per l'iterato riferimento alla maceria, alla parete diroccata in mattoni, al cui proposito Marc Augé osserva, che tale referente non fa che prefigurare «[...] la catastrofe futura e i vuoti che ne sarebbero derivati»[11], sulla spinta del terrore nucleare che aveva impegnato l'immaginario americano degli anni Settanta. Ma le rovine, aggiunge l'antropologo francese, suggeriscono anche «l'esistenza di un tempo "puro", non databile, assente da questo nostro mondo di immagini, di simulacri, di ricostruzioni, da questo nostro mondo violento le cui macerie non hanno più il tempo di diventare rovine. Un tempo perduto che l'arte talvolta riesce a ritrovare»[12].
Un secondo esempio, che introduce un diverso rapporto tra antico e moderno, tra architettura e città è il progetto di Peter Eisenman per Cannaregio, a Venezia (1978) dove, da un lato è il rudere/memoria, come permanenza storica, ad essere uno stimolo formale e, dall'altro è lo stesso contesto fisico ad essere indagato, scavato, analizzato, interpretato, rimodellato; come avviene anche con il progetto per il Check Point Charlie a Berlino (1982-87) in cui il tema del luogo è ricondotto all'attualità di una ricerca tendendo all'individuazione di un punto di fusione possibile tra passato e presente. Mentre nel progetto per Casa Guardiola, a Puerto de Santa Maria, Spagna (1987), il luogo, che si ispira al chora del Timeo, scrive Cappelli, si presenta come «[...] uno spazio neutro e sperimentale [...], da riempire di forme, capace di dare visibilità al mondo e di educarne lo spirito».
Un ulteriore e non secondario elemento, infine, che caratterizza il saggio di Cappelli, è il suo essere, unitamente, architetto e artista. E questo libro riflette tale duplice sensibilità rivolta al costruire (inteso qui come un atto di manipolazione della materia con finalità espressive) e al rappresentare la forma in senso critico, analitico, creativo.
Lo scritto non procede secondo uno sviluppo lineare, ma piuttosto per stratificazione di piani di lettura, di punti d'osservazione differenti. Ma l'aspetto interessante del lavoro che meriterebbe un'attenzione a parte di chi vorrà abbandonarsi alla lettura-visione di queste pagine, è la riappropriazione che l'autore opera dei materiali descritti attraverso il disegno e la fotografia; a volte, abilmente alternati alle pagine scritte, a volte, concitatamente mescolati a sequenze serrate di opere appartenenti alla ricerca figurativa dell'autore. In questo modo, manifestando le proprie 'radici' architettoniche, ma anche gli innegabili spazi d'autonomia e di creatività nei riguardi di quella disciplina.
Una ricerca formale, dunque, che si sovrappone ai diversi capitoli del testo come una serie di dissolvenze incrociate, quasi a voler testimoniare il profondo rapporto intellettuale-sentimentale, con le vicende architettoniche descritte del passato e del presente.

[1]Quartiere Ina-Casa in via Tiburtina di: Ludovico Quaroni, Mario Ridolfi, Carlo Aymonino, Carlo Chiarini, Mario Fiorentino, Federico Gorio, Maurizio Lanza, Sergio Lenci, Piero Maria Lugli, Carlo Melograni, Giancarlo Menichetti, Giulio Rinaldi, Michele Valori.
[2]Quartiere Valco San Paolo di: Mario De Renzi e Saverio Muratori, Eugenio Montuori, Mario Paniconi, Giulio Pediconi, Fernando Puccioni.
[3]Quartiere Tuscolano di: Mario De Renzi, Lucio Cambellotti, Francesco Fariello, Adalberto Libera, Saverio Muratori, Giuseppe Perugini, Giulio Roisecco, Dante Tassotti, Luigi Vagnetti.
[4]Unità d'abitazione orizzontale di: Adalberto Libera.
[5]Mausoleo delle Fosse Ardeatine di: Nello Aprile, Cino Calcaprina, Aldo Cardelli, Uga De Plaisant, Mario Fiorentino, Giuseppe Perugini.
[6]Quartiere Iacp Corviale di: Mario Fiorentino, Federico Gorio, Piero Maria Lugli, Giulio Sterbini, Michele Valori.
[7]Paolo Portoghesi, Le inibizioni dell'architettura moderna, Laterza, Bari-Roma 1974, p. 46.
[8]Albert Camus, Nozze, in: Opere, romanzi, racconti, saggi, Bompiani, Milano 2000, p. 60.
[9]Paolo Portoghesi, Le inibizioni dell'architettura moderna, op. cit., p. 45.
[10]Come osserva Ludovico Quaroni, nel commento che fa alle foto di Fontana di Trevi nel suo libro Immagine di Roma, Laterza, Bari 1969.
[11]Marc Augé, Rovine e macerie, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 97.
[12]Ibidem, p. 8.

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