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Nuovi musei decentrati
Rivista Metamorfosi N° 42/43
di giugno, 2001
Autore: Michele Costanzo Maria De Propris
Articoli Uno degli aspetti che caratterizzano la nostra condizione contemporanea, sta nel fatto che l'universo delle immagini -derivate dalla pubblicità e dalle strutture della comunicazione, o provenienti dal cyberspace- tendono, ormai, ad occupare ogni ambito della vita sociale. L'insinuarsi della loro azione in ogni interstizio della quotidianità, che ha un andamento simile ad un processo di metastasi in un corpo vivente, è una delle manifestazioni più eclatanti della realtà del mondo d'oggi. Un importante riflesso di tale sviluppo venutosi a determinarsi nel campo dell'arte è l'abbattimento delle barriere tra mondo della comunicazione per immagini e opera d'arte; questo ha creato una sorta di doppio transito incrociato: dalle espressioni della vita comune a quelle estetiche e, viceversa. In questo modo, avviene che la nozione di opera d'arte individuale, così come il concetto di autonomia estetica, siano ormai irrimediabilmente compromessi. «Ogni cosa è, attualmente, totalmente traslata nel visibile (compresa anche ogni riflessione critica)», osserva Fredric Jameson, l'attenzione estetica «si ritrova così trasferita nella vita della percezione» . Il critico americano definisce tale nuova realtà come una «nuova vita della sensazione postmoderna» ; così, la stessa esperienza dello shopping, come ogni altra forma di manifestazione del tempo libero, assume una valenza estetica, e questo rende obsoleto tutto quello che dipende da tale sfera.
Allo stesso modo, Jean Baudrillard afferma che, «in un processo di estetizzazione generalizzata, le forme si estenuano e diventano valore; allora, valore, estetica, cultura, etc. risultano negoziabili all'infinito (...). La cultura invade ogni presenza del reale e, ovunque, essa diviene l'omologo dell'industria e della tecnica, una tecnologia mentale, che si alimenta e trova consenso in ogni museo, attraverso le prestazioni architettoniche» .
Non è, dunque, un caso che direttori di musei, curatori e, soprattutto, artisti riflettano sul problema dell'esposizione delle opere d'arte , alla ricerca di condizioni "ecologiche" di sopravvivenza per l'arte stessa. Ciò che viene preso in esame è il problema della frammentazione e della dispersione, a cui è soggetto ogni lavoro d'artista, e del rapporto che esso ha con lo spazio in cui viene posto. Quello che si cerca di realizzare è una ideale 'messa in scena' delle opere per porre in evidenza la forza teatrale racchiusa in ognuna di quelle componenti che stanno a determinare il carattere dei luoghi deputati all'esposizione: la loro collocazione nel territorio, la specificità dell'architettura, l'organizzazione degli spazi e, infine, le interne 'convenzioni' che caratterizzano le loro strutture. In effetti, tutti questi aspetti, nel loro costituirsi quali 'soggetto' e 'materiale' dell'opera -come avviene per numerosi artisti- implicitamente mettono in discussione il punto di vista tradizionale attraverso cui il museo, fino ad ora, era stato considerato; in particolare, quel ruolo che da sempre aveva posto in relazione da un lato artista, opera e curatore, e dall'altro il pubblico.
Ricorderemo, qui, tre artisti che hanno indagato su tre diversi nodi tematici verso i quali il museo contemporaneo, risulta, ancora, profondamente legato; essi sono: Marcel Broodthaers, Joseph Beuys, Maria Eichhorn.
Broodthaers (1924-1976), nel suo intervento a Documenta V (1972), curato da Harald Szeemann, nella sezione dedicata ai musei d'artista, riflette sulle convenzioni che ancora vincolano l'istituzione museale. Egli presenta, per l'occasione, l'ultima delle dodici sezioni del suo "museo fittizio": la "Section Pubblicité" , consistente in una collezione di curiosità, che prendono la forma di una tassonomica esibizione di immagini di aquile, comtemporaneamente recuperate dal mondo dell'arte come da quello della pubblicità. Si tratta di un procedimento di montaggio, basato sulla comparazione, che privilegia il momento didascalico; l'artista belga, in questo caso, pone in relazione l'unicità dell'opera con l'indifferenza del prodotto mediatico, facendo emergere le diverse valenze desumibili nella transizione dal messaggio artistico al segno pubblicitario, cercando, altresì, di mettere in evidenza il meccanismo mediante il quale il sistema di comunicazione di massa condiziona sia la creazione, che la ricezione dell'arte. Tale processo analitico, che si traduce in un tipo di intervento, peraltro, altamente spettacolare, ha per oggetto il modo in cui l'arte chiede il diritto alla vita, cercando di organizzare una propria forma di esistenza attraverso procedimenti che ne reinventano e ne riarticolano tradizioni, materiali, mezzi, sfidando le consuete tecniche di produzione e di esposizione, mettendo in evidenza le contraddizioni, la tautologia, la retorica. Il modello di espressione, qui privilegiato, è la parodia, indirizzata alle barriere disciplinari e temporali, come pure all'omologazione aberrante a cui conduce l'affollamento delle immagini all'interno del sistema espositivo.
Beuys (1921-1986), nell'allestimento che realizza al settimo piano dell'Hessiches Landsemuseum a Darmstadt, intitolato Beuys Block (1970), dove ordina i materiali di sue precedenti performances (sculture, disegni, multipli ed oggetti), collezionati durante gli anni Sessanta da Karl Stroher, medita sulla sacralità del momento espositivo.
Il museo che ospita la collezione, è un edificio dell'Ottocento in cui trova luogo una sezione di storia naturale. Nel suo allestimento, l'artista definisce l'ordine delle opere, il loro rapporto con la spazialità della costruzione, ma soprattutto analizza l'impatto percettivo della sequenza degli ambienti sul visitatore. «Beuys controlla l'esperienza dal momento in cui si entra nella grande sala, attraverso il passaggio, fino alle sale più piccole. Ogni ambiente, con il fitto tappeto in terra e gli scuri pannelli che ricoprono le pareti, è acusticamente isolato, soft, un cocoon in cui lo spettatore può scoprire tesori come un ragazzino che si meraviglia durante la visita di un museo di fenomeni (...). Nessuno che si reca in viaggio a Darmstadt può rimanere indifferente al senso di pellegrinaggio insito nella visita della città e nell'arrampicata su verso l'ultimo piano del museo» .
Eichhorn (1962-), infine, nella sua azione all'interno del Museum van Hedendaagse Kunst ad Antwerpen (1993), nella mostra "On taking a normal situation and re-translating it into overlapping and multiple readings of conditions past and present", curata da Yves Aupetitallot, Iwona Blazwick e Carolyn Christov Bakargiev, propone una riflessione sull'architettura dei luoghi destinati all'esposizione. L'edificio, in cui l'artista bavarese è stata invitata ad esporre, realizzato negli anni Ottanta a seguito del piano di rinnovo della vecchia zona portuale della città, è di forte impronta funzionalista. Si tratta di un grande volume chiuso in se stesso, uniformemente ricoperto da un intonaco chiaro, i cui spazi interni destinati all'esposizione non rispecchiano l'asciutta semplicità della figura architettonica.
L'artista prende in considerazione il lato posteriore rivolto verso il fiume Schelde, che non presenta alcun tipo di apertura verso il paesaggio degli storici docks. Il volume, quasi totalmente privo di luce naturale, è illuminato artificialmente e climatizzato.
Il progetto della Eichhorn, in radicale opposizione a tale impostazione architettonica, consiste nell'apertura di una "finestra francese", proprio nella parete che dà verso il fiume, con l'evidente intento di mettere in comunicazione gli spazi museali con la città, aprendoli alla luce naturale, facendo penetrare aria all'interno. L'intervento è volutamente marginale rispetto ai luoghi di esposizione; il suo fine esplicito è quello di svelare l'illogicità della concezione dell'impianto. Alla fredda e standardizzata qualità delle finiture del museo, l'artista contrappone il caldo, domestico e rassicurante disegno di un infisso, semplice e discreto, realizzato artigianalmente , che non sconvolge lo spazio esistente, ma lo vivifica trasmettendo ad esso un'energia che attrae il visitatore facendolo indugiare a contemplare il paesaggio circostante: il vecchio porto, i campi verdi.
Alla fine dell'esposizione, il vuoto della parete sarà richiuso, anche se non saranno totalmente cancellate le tracce dell'intervento.
Sulla base di queste 'premonizioni' d'artista, circa il possibile futuro dello spazio espositivo per l'arte d'oggi, ci sembra interessante segnalare la presenza di due piccoli musei situati rispettivamente in una zona settentrionale e in una centro-meridionale del nostro paese: la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo per l'Arte, a Guarene d'Alba e la casa-museo Durini, a Bolognano.
Si tratta di strutture di modesta dimensione e fortemente decentrate rispetto ai grandi poli del consumo turistico-culturale. Esse si pongono in stretta consonanza con la sensibilità degli artisti, interpretando il loro bisogno di spazi di totale concentrazione, provocando complicità e coinvolgimento tra opera e utente attraverso il recupero della dimensione dell'intimità e dell'emozione, ma anche affermando una sottile resistenza all'idea della 'trasformazione'.
La Fondazione Sandretto Re Rebaudengo nasce a Torino nel 1995, sulla base di una importante collezione di proprietà della famiglia, particolarmente attenta all'arte inglese delle ultime generazioni. Il suo intento è quello di ricercare una nuova forma di dialogo con le giovani generazioni di artisti, critici, curatori. Così, inizia ad operare nel campo dell'arte nel modo più ampio e vario, dando vita ad un importante osservatorio sulle produzioni d'avanguardia più interessanti. La manifestazione con cui la Fondazione prede l'avvio è "Campo 95", evento visivo che può essere considerato il manifesto della sua azione culturale, presente e futura. Il titolo intende evocare il mondo del lavoro e, nel contempo, manifestare un atteggiamento di distacco critico rispetto alle contraddizioni derivate dalle convulse trasformazioni dell'attuale civiltà altamente tecnologica . Negli anni successivi la Fondazione proseguirà nella sua opera di indagine del momento espositivo, proponendo mostre d'arte (pittura, scultura, fotografia, video, installazioni e performances) realizzate anche fuori dai circuiti museali tradizionali, accompagnate da convegni, seminari, attività di studio, laboratori per bambini, visite guidate, pubblicazioni e premi.
Il nuovo spazio espositivo, dove nel 1997 la Fondazione inizia la sua attività, si trova in un palazzo settecentesco di Guarene d'Alba, un piccolo comune delle Langhe di grande rilevanza agricolo-paesistica.
L'edificio, sarà trasformato in centro per l'arte contemporanea tramite un pregevole intervento progettuale , estremamente rispettoso del valore della preesistenza storica e attento alle esigenze di una struttura espositiva. «Il palazzo doveva essere recuperato», scrivono i progettisti, «perché luogo di affetti lontani, e doveva esprimere un senso, un segno, un richiamo di nuova vita. Ed allora, un museo per un'avventura dentro l'arte contemporanea così difficile, dura, a volte quasi incomprensibile, inquietante..., ma a tratti leggera, solare, capace di far sognare e di "colpire"» .
Il filo ideale che percorre l'intera operazione è costituito dal senso della misura che guida gli interventi; essi sono consapevolmente condotti «con mano leggera al massimo della modernità, ma in dialogo di indipendenza con l'esistente, onde evitare il rischio di un ibrido impadroneggiabile. (...) L'architettura che non si imporrà per aggressività, per bellezza, per tesi culturali, emergerà fra le righe, non nelle righe, fra le strutture e non nelle strutture, nelle relazioni e non nelle affermazioni, nell'insieme non nelle parti, nei rimandi e non nella staticità» .
Per non stravolgere il senso dell'impianto storico dell'edificio vengono impiegati «pochi materiali: ferro lasciato zincato per i nuovi serramenti, cemento chiaro per i nuovi pavimenti, in intonaco grezzo i muri esistenti e in colori puntinati cangianti quelli nuovi, disposti generalmente in diagonale per differenziarsi dall'impianto ortogonale esistente, scalette in ferro zincato e in alluminio per i molti dislivelli fra gli ambienti, serramenti dalle partiture sagomate per il passaggio delle opere. La scarna finitura dei manufatti pur moderna e senza rinunce e la loro aconvenzionalità, mette al riparo da atmosfere pacificanti. L'arte contemporanea è delicata e inquieta e l'involucro la deve lasciar respirare.
Per i due livelli del cortile principale si è agito così: il livello alto è stato reso sicuro nella sua solidità sigillando i buchi e le fenditure del tempo con colate di stagno, come delle carie. Mentre il cortile principale a livello basso è stato coperto con erba artificiale di tre colori e campioni di materiali vecchi e nuovi disposti a caso. Questo rapporto tra casualità e ordine dà un'apertura al progetto verso dimensioni sconosciute. La vecchia scaletta, anche un po' banale, tra i due livelli del cortile è stata conservata tale e quale, ma ampliata con gradini di zinco, rappresenta una chiave di lettura del rapporto tra nuovo e vecchio dell'intero restauro»
Il progetto procede attraverso un tergiversare volutamente elementare, ricco, marcatamente disinibito; un gioco di analogie e metafore con un andamento fortemente affabulatorio, al fine di provocare continui rimandi all'immaginario. Esso si rivolge direttamente al mondo dell'arte e tesse una fitta rete di intertesti, fatta di citazioni esplicite, ritorni confessati o fortuiti, ripetizioni inconsce: la ringhiera in tondini zincati, è un omaggio a Licini; il terreno tagliato è un riferimento a Michael Heizer; il resto, quello che si nasconde, è un'esplicita allusione a Cage.
La casa-museo Durini è situata in un piccolo paese nel cuore dell'Abruzzo, sul versante meridionale della vallata del Pescara. Anche in questo caso viene utilizzato come spazio espositivo un palazzetto di famiglia, quello del fotografo Buby Durini.
Gli spazi interni sono allestiti da Lucrezia De Domizio Durini ed ospitano un'importante raccolta di opere di Beuys .
Il palazzo, che si affaccia su una proporzionata corte-piazza, si trova nel centro del paesino abruzzese. Si compone di 42 ambienti distribuiti su cinque livelli. Ogni stanza contiene alcune opere dell'artista tedesco, molte delle quali sono sistemate in vetrine di legno naturale, altre sono installazioni tra cui ricordiamo: il Grassello (1979), il Tavolo delle Seychelles (1980), lo Svecciatoio per la fame nel Mondo (incompiuto); e poi il Grande ombrello della cultura ('reliquia' con cui ha visitato il museo di Rivoli in occasione della mostra del 1984), una sala con cento casse di vino e una bicicletta, un'altra con un frantoio e vasche di decantazione per l'olio.
Le bianche pareti delle sale sono tappezzate da fotografie scattate da Durini e documentano l'attività dell'artista negli anni che vanno dal 1972 al 1986 (anno della sua morte). Un lungo tratto di vita in comune in cui i coniugi Durini hanno avuto l'opportunità di condividere gli ideali e la vena utopica dell'artista. Un volume di fotografie di Durini , ripercorre le fasi salienti di questo importante sodalizio.
Il museo mostra, altresì, come Beuys abbia utilizzato ogni mezzo artistico per predicare il suo messaggio, attraverso: sculture, pitture, disegni, video, dibattiti, fotografie, cartoline, poster, affiche, multipli, nonché la sua stessa immagine, come aureo materiale di propaganda.
Nel 1973, l'artista viene invitato nella tenuta dei Durini e subito si innamora dei luoghi. Inizia un rapporto di amicizia, di collaborazione e, da parte della coppia De Domizio-Durini, di promozione dell'opera dell'artista. Così, nel 1980, la coppia di collezionisti decide di riaprire il loro palazzo, chiuso da 50 anni. Bolognano diviene il centro di una serie di iniziative e di progetti.
Beuys, che nel 1978, a Pescara, aveva già realizzato la Fondazione della rinascita dell'agricoltura, nel 1980 prosegue a Bolognano con l'operazione Difesa della natura che coinvolge un'intera tenuta agraria di 15 ettari, in cui una vecchia casa colonica viene restaurata e, successivamente diventerà il suo studio. I terreni preparati con fertilizzanti naturali verranno piantumati con 7000 arbusti e specie d'alberi in via di estinzione.
Nel 1984 (il 12 maggio), in occasione del suo sessantatreesimo compleanno, a Palazzo Durini, sotto l'occhio delle telecamere l'artista presenta l'intera collezione di Lucrezia De Domizio e poi allestisce la teca Incontro Con Beuys 1979-1984 (ora nella collezione Guggenheim).
Il giorno seguente gli vengono consegnate le chiavi del paese, diventando cittadino onorario di Bolognano. Visitata, poi, la piantagione e pianta una quercia. Nel pomeriggio, nelle cantine sociali ha luogo la discussione sul tema "Difesa della Natura", in cui l'artista espone il suo concetto di creatività. Su due lavagne nere, attraverso criptici disegni, egli lascia testimonianza di quello che intende per senso dell'immenso e dello spirito cosmico .
La sua difesa della Natura, prima di essere un'azione propriamente ecologica, è un tentativo di aprire un dialogo tra noi e la Natura, in quanto siamo parte di essa.
Nel 1999, a quindici anni dall'installazione dell'albero, anche Szeeman pianterà a Bolognano una quercia (essenza particolarmente amata da Beuys, insieme al rosmarino e all'alloro). A questa azione, farà seguito un pranzo rustico, dei canti folcloristici e la proiezione su schermo gigante del video, curato da Durini, "Difesa della Natura".
Quello che ha sempre caratterizzato l'attività nella casa-museo Durini, è la sperimentazione di tecniche e di metodi espositivi; per cui se da un lato con questo vengono messi in discussione alcuni caratteri dell'istituzione museale, dall'altro viene esaltato il momento creativo del visitatore. La preoccupazione fondamentale dell'allestimento è rendere visibile l'idea, visualizzare la tensione utopica, l'ossessione che percorre ogni opera. Si enfatizza, così, la dialettica tra la sfera intima e l'universale, che è quella di rendere percepibile un atteggiamento esemplare vissuto e, nello stesso tempo, delineare la possibilità di una società più creativa e più cosciente.
Il tema di fondo è quello baudeleriano delle affinità, delle corrispondenze e delle risonanze, ma rivolto all'opera di un singolo artista, al suo rapporto soggettivo ed universale, a un tempo, con un luogo e con coloro che lo abitano.
Le opere che occupano gli spazi della casa-museo sono intrise di profondi significati simbolici, ma è da notare che quel senso di utopia che le pervade, viene ulteriormente dilatato, moltiplicato attraverso le immagini fotografiche dell'amico collezionista; il loro doppio, creato dall'immagine che documenta il tempo e il respiro della loro ideazione, sembra invadere ogni ambito.
Chi arriva in questo luogo, assolutamente fuori dai circuiti turistico-culturali, è sicuramente motivato e preparato, per cui entra facilmente in sintonia con lo spirito che vi aleggia, una tensione sospesa che mantiene la sua forza poetica proprio per la consapevolezza dell'impossibilità a realizzarsi.


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