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Alcune considerazioni su "import export" di Bernard Tschumi
Autore: Michele Costanzo
Il termine "import-export" che s'incontra tra le pagine di Architecture and Disjunction, rappresenta un'espressione denotativa della ricerca di Bernard Tschumi. Essa è impiegata in diverse occasioni, sempre per esprimere l'idea dello scambio di esperienze, di incrocio tra culture.
Import and Export è, altresì, il titolo che Tschumi dà ad una sua conferenza tenuta a Parigi nel giugno del 1999, in occasione degli incontri internazionali organizzati da la Anyone Corporation, per sondare le condizioni dell'architettura alla fine del millennio. La manifestazione si è svolta presso la sede della vecchia Cinémathèque, un luogo per così dire 'mitico' (sotrattutto per chi, come Tschumi, ama il cinema), un tempo frequentato da Godard e Truffaut.
In base ad una tradizione annuale[1], anche in quest'occasione il tema generale degli interventi assume come titolo chiave una parola composta: "Anymore".
Nella sua conferenza l'architetto svizzero sviluppa un argomento centrale nel dibattito degli anni Novanta, quello dell'eterogeneità, che rappresenta un aspetto della nostra realtà, del nostro presente, con cui necessariamente ci dobbiamo confrontare.
Tale concetto di eterogeneità -che Tschumi contrappone a quello di purezza omogenea, che ha incarnato storicamente "l'immagine ultima", l'obiettivo estremo verso cui tendere della mitologia modernista- è frutto di un sistematico scambio d'idee e di esperienze tra America e Francia, che egli ironicamente definisce import-export.
L'interminabile partita giocata tra le due rive opposte dell'Atlantico, prende inizio negli anni Settanta. Essa si orienta su due fondamentali direttrici: la prima, ad indirizzo filosofico, si sviluppa in Francia grazie al fondamentale contributo teorico di Jacques Derrida; la seconda, a carattere critico-letterario, negli USA ad opera dagli Yale Critics (Paul de Man, Harold Bloom, Geoffrey Hartman, J. Hills Miller).
I due filoni si svilupperanno a stretto contatto tra loro. I risultati delle loro approfondite sperimentazioni trasmetteranno un'importante influenza in ambito architettonico, come Tchumi fugacemente accenna nel corso della sua esposizione.
L'import/export, com'egli afferma nell'incipit della sua trattazione, è uno degli argomenti maggiormente presi in considerazione nelle conferenze di Any. Si tratta, in definitiva, di ciò che «[...] l'architettura importa dalle altre discipline e [...] ciò che da essa viene esportato in altri settori del sapere». E' un continuo e serrato scambio d'idee ed esperienze che richiedono azioni che implicano gli atti del mescolamento, della compressione, dell'espansione, della conformazione, della deformazione.
Gli effetti della presa di coscienza di questa 'intersezione culturale' cominciano a delinearsi nei suoi lavori a partire dalla metà degli anni Settanta, in occasione del suo trasferimento da Londra (dove svolgeva un corso presso l'Architectural Association diretta da Alvin Boyarsky), a New York (dove insegna all'Institure for Architecture and Urban Studies diretto da Peter Eisenman e, contemporaneamente, inizia a frequentare un ambiente artistico composto da giovani personalità quali: Robert Longo, David Salle, Cindy Sherman). E' in questa fase che egli intraprende la realizzazione della serie degli Screenplays (che confluiranno poi in The Manhattan Transcripts) nella cui concezione egli assimila tutte le sue precedenti esperienze. «Le chiamavo relazioni im port-export tra progetti, teorie e scritti. Gli scritti si conformavano ai progetti [...]. I progetti erano strumentali allo sviluppo delle idee»[2].
Per legare in forma icastica la nozione di import-export a quella di eterogeneità, innesto applicato ai corpi -un concetto fondativo, come si è detto, del suo percorso di ricerca- egli pone come esempio, singolare ma efficace, una sua personale, assai penosa, esperienza: un violento incidente d'auto. «Mentre ero in ospedale riflettevo sul concetto di importazione ed esportazione, sull'idea di forze tra oggetti dinamici ed inanimati e tra Francia e America».
Anche questa esperienza, per Tschumi, è una forma di disgiunzione, trasgressione, contaminazione, da un campo ad un altro, per poi essere riassorbita, recuperata, reintegrata. Esiste allora, egli si chiede in conclusione, «[...] un'architettura che non possa essere 'recupéré', un'architettura che sia sempre attraente e contemporaneamente inquietante? Un'architettura che sia esaltata e, allo stesso tempo, rifiutata? Potrebbe essere 'l'architettura dell'evento', dove tutto ciò che succede in essa, e attraverso di essa sia più importante di ciò che è comunicato. Scontri di auto o... Architettura ...».
La radiografia del braccio, con le relative integrazioni metalliche, che l'architetto utilizza per illustrare l'articolo, assomma in sé un duplice significato: da un lato mette in evidenza la continuità del suo pensiero, a partire dall'operazione degli Screeplays e, dall'altro chiarisce, in forma icastica, il suo originale modo di intendere l'architettura.

Parametro on-line 2003


[1] Il ciclo di 10 conferenze si caratterizzava per la titolazione incentrata sulla ridefinizione di una serie di parole inglesi composte aventi tutte lo stesso prefisso any: anyone, anywhere, anyway, anyplace, anywise, anybody, anyhow, anytime, anymore e anything. Ciascuna delle espressioni era allusiva del tema che si voleva trattare.
[2] Geoffrey Broadbent, Interview with Bernard Tschumi, in: Jorge Glusberg (a cura di), Deconstruction. A Student Guide, London 1991, p. 66.