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Aldo Rossi. Corpo e architettura
Autore: Michele Costanzo
Il rapporto tra architettura e corpo è un tema nei confronti del quale Aldo Rossi, nel corso della sua attività di progettista, manifesterà un costante interesse come afferma nelle pagine della sua Autobiografia scientifica[1]. Da tale relazione, egli saprà trarre fondamentali stimoli che contribuiranno a delineare alcuni tratti caratteristici della sua ricerca.
Due sono i modi in cui il corpo, secondo l'architetto, riesce ad interagire con lo spazio architettonico: come dato dimensionale e come evento accidentale.
L'obiettivo, nel primo caso, è quello di determinare nella configurazione del luogo un equilibrio di valori, mediante la messa in atto di un principio di tipo geometrico-proporzionale.
Procedendo lungo questa linea, egli prende in considerazione coppie di opposta entità scalare, quali minimo e massimo, unico e molteplice che sono assunte, nella prospettiva di una reciproca integrazione, per la loro pura valenza quantitativa e dimensionale, badando che gli elementi costitutivi di tale insieme, non perdano i loro rispettivi caratteri.
Rossi inizia a portare avanti questa riflessione nella prima metà degli anni Settanta, alcuni anni dopo il suo saggio L'architettura della città, avendo come punto di partenza la "piccola casa" che rappresenta la dimensione minima del vivere; essa racchiude in sé il nucleo fondamentale dei valori che sono alla base di ogni crescita: la costituzione di un insieme, ossia un villaggio. «La piccola casa non è la villa», egli afferma, «come il lungo ballatoio, come la corte essa prevede un villaggio, una familiarità, un legame che anche nei casi migliori è come un sentimento coatto»[2].
L'idea prende forma per la prima volta nei disegni per le Le cabine d'Elba (1973); «le ho poi chiamate Impressions d'Afrique [...]. Le capanne-cabine erano quindi innumerevoli e questo mi ha fatto intravedere un tipo di città e di edificio [...] circondato da innumerevoli capanne»[3].
Anche il progetto per la Casa dello studente a Chieti (1976) si muove secondo l'idea del villaggio africano o mediterraneo; il suo aspetto «era dato da queste cabine come dalle grandi palme che pensavo da anni e che tornano dovunque nella mia osservazione»[4].
In questo modo la "piccola casa", sia essa capanna o cabina, viene a conformarsi e deformarsi nel luogo e nelle persone, «niente poteva sostituirle o sottrarle questo carattere privato, quasi di singolo, di identificazione col corpo, con lo spogliarsi e il rivestirsi»[5].
Il rapporto con il corpo si ritrova ancora, come un'eco lontana, «nei racconti dei contadini riuniti nelle stalle», come pure «nella piccola analoga costruzione del confessionale»[6], dove si parla di cose segrete; così, in quello spogliare la propria anima, come il corpo nelle cabine estive, si avverte la duplice sensazione di piacere e di disagio.
La visione delle cabine con le quattro pareti dipinte a fasce colorate, che si concludono con il timpano e la bandiera al vertice, «ci rende coscienti», egli osserva, «che all'interno vi deve essere una vicenda e che in qualche modo alla vicenda seguirà lo spettacolo. Come quindi separare la cabina da un altro suo senso: il teatro?»[7].
Architettura e teatro, secondo Rossi, sono legati da un comune sviluppo narrativo che ha «il suo inizio, il suo svolgimento, la sua conclusione. Senza vicenda non vi è teatro e non vi è architettura»[8].
Da una sua personale attrazione nei confronti del teatro nasce il parallelo analogico con l'architettura che in questo modo diventa «il fondale possibile, il luogo, la costruzione misurabile e convertibile in misure e materiali concreti di un sentimento spesso inafferrabile»[9].
Lo sviluppo dell'idea di architettura come "scena fissa delle vicende dell'uomo" porterà al progetto per il Teatrino scientifico (1979), modello di scena realizzato attraverso un collage di elementi prelevati da altri suoi lavori.
Questo conduce alla seconda maniera, in cui il corpo si relaziona all'architettura come evento accidentale che, nel suo compiersi, conferisce un senso, una propria ragione di essere all'ambito spaziale che ne rappresenta idealmente la scena. L'azione dinamica del corpo anima, in questo modo, lo spazio-palcoscenico incrinandone la congenita fissità.
E' interessante notare come, dal ciclico succedersi degli accadimenti, Rossi riesca ad estrarre imprevisti squarci di poesia: «stando nel Sant'Andrea di Mantova», egli scrive, «[...] vedevo la nebbia entrare nella basilica, come spesso amo osservarla nella galleria milanese, come l'elemento imprevedibile che modifica e altera, come la luce e le ombre, come le pietre ridotte e lisciate dai piedi e dalle mani di generazioni di uomini»[10].
Dallo sviluppo del binomio teatro e architettura, prende l'avvio una successione di tematiche, legate l'una all'altra da un tramite conseguenziale, che instaura un singolare congegno simile a quello delle "scatole cinesi", con la variante in cui l'ultima torna a riproporre il tema iniziale.
Quello che immediatamente sembra di poter cogliere, dalla composta presenza delle figure architettoniche rossiane, è il bisogno di raggiungere, attraverso l'atto che le determina, qualcosa di conclusivo. «Da un certo punto della mia vita», egli scrive, «ho considerato il mestiere o l'arte come una descrizione delle cose e di noi stessi [...] Ogni mio disegno o scritto mi sembrava definitivo in un doppio senso; nel senso che concludeva la mia esperienza e nel senso che poi non avrei avuto più nulla da dire.
Ogni estate mi sembrava l'ultima estate e questo senso di fissità senza evoluzione può spiegare molti miei progetti»[11].
La fissità che li avvolge, sembra voler indicare, da un lato, un'intenzionalità tesa a favorire l'evento, «indipendentemente dal fatto che esso accada»[12] e, dall'altro, l'idea di un'attesa che, come nella scena classica, segna il distacco da ogni vicenda e, contemporaneamente, la volontà di essere loro testimone.
Quell'insieme di sensibilità, esperienza, spirito critico e capacità analitica che trova espressione nella caratteristica modalità espressiva che Rossi riesce a trasmettere alla forma, trova un punto di origine nel particolare rapporto che egli stabilisce con la realtà; «l'osservazione delle cose è stata la mia più importante educazione formale»[13], ma una volta avviato quel processo ideativo, subito ne prende le distanze introducendo, come una sorta di deviazione rispetto alla logica del suo naturale sviluppo, il tema del ricordo, «poi l'osservazione si è tramutata in una memoria di queste cose»[14].
Il ricordo, è il sentimento della nostalgia che si rivolge a vicende avvenute in un passato più o meno remoto; ma il senso di immobilità sospesa che si percepisce dalle sue opere, sembra piuttosto manifestare una sensibile attrazione per quell'insieme, di idee, sentimenti, immagini, intuizioni, percezioni, rimasto drammaticamente inespresso o non ancora manifesto. «Quando ho visto a New York l'opera completa di Edward Hopper ho capito tutto questo della mia architettura: quadri come Chair Carr o Four Lane Road mi hanno riportato alla fissità di quei miracoli senza tempo, tavole apparecchiate per sempre, bevande mai consumate, le cose che sono solo se stesse.
Pensando a queste opere mi accorgo che mi interessano molto le cose che stanno per dirsi e il meccanismo con cui si potrebbero dire pur sapendo che un altro più oscuro impedisce il compiersi regolare delle operazioni poi necessarie perché qualcosa avvenga»[15].
Il personale modo di concepire il progetto, lo porta a considerarne lo svolgimento come un'esperienza che deve essere vissuta, ma anche come memoria di altro.
L'idea di memoria, assumerà sempre più in Rossi una posizione centrale nel suo fare progettuale: come accumulo di ricordi, come spazio mentale senza limiti entro cui trovano luogo idee, esperienze, immagini che appartengono alla storia e alla propria biografia.
Questo è il punto di riferimento costante a cui egli ricorrere nella propria prassi progettuale.
Osservare, analizzare, configurare: una successione di atti che troveranno una loro specifica maniera di configurarsi attraverso il processo di rammemorazione.
Progettare, per Rossi, è come ricordare; questo gli comunica la singolare sensazione «di non disegnare più l'architettura ma di riprenderla dalle cose dalla memoria»[16].
L'itinerario che egli percorre per approdare alla forma -come egli stesso tende a sottolineare nello scritto autobiografico- ha tali profonde implicazioni con la sua vicenda umana che potremmo avvicinarlo ad una sorta di anamnesi, ad un processo di rimozione, come avviene nella psicoanalisi per la cura di un trauma. Il termine di riferimento comune è, infatti, la memoria e con essa l'esigenza di rivivere il passato per recuperare il senso del vissuto, per ricomporne la struttura.
Ma il concetto di memoria, in Rossi, non si esaurisce chiudendosi nel circoscritto ambito delle proprie esperienze. La sua ricerca parte sempre da una visione storica degli eventi per poi riconvergere nella dimensione autobiografica; egli, infatti, afferma: «ricercavo nella storia, [...] traducevo nella mia storia»[17].
Nelle sue opere i due livelli interagiscono tra loro dando luogo a sorprendenti intrecci che costituiscono l'aspetto più peculiare della sua maniera progettuale.
Come in una sequenza di fotogrammi di una pellicola visti attraverso una moviola, egli preleva immagini che sono il lascito della storia o la testimonianza della propria vita, per ricomporle in sequenze nuove, a cui conferisce significati sempre diversi; esse appaiono «tutte disposte come utensili in bella fila; allineate come in un erbario, in un elenco, in un dizionario. Ma questo elenco tra immaginazione e memoria non è neutrale, esso ritorna sempre su alcuni oggetti e ne costituisce anche la deformazione o in qualche modo l'evoluzione»[18].
Questo è il suo teatro, teso a rappresentare una realtà extratemporale e, dunque, valida per ogni tempo.
I suoi oggetti architettonici, algide icone che popolano spazi costruiti per rappresentare l'epitome del mondo, sono gli elementi costitutivi di quella "scena fissa" in perenne attesa di infinite vicende da narrare.

“2a+p” n.0, settembre 1999

[1] Il volume è pubblicato in inglese nel 1981, successivamente viene tradotto in diverse lingue, la prima edizione italiana risale al 1990.
[2] Aldo Rossi, Autobiografia scientifica, Parma 1990, p. 48.
[3] Ivi.
[4] Ivi.
[5] Ibidem, p. 49.
[6] Ivi.
[7] Ibidem, p. 50
[8] Ibidem, p. 58
[9] Ibidem, p. 36
[10] Ibidem, p. 9
[11]Ibidem, p. 7
[12] Ibidem, p. 12
[13] Ibidem, p. 27
[14] Ivi.
[15] Ibidem, p. 13
[16] Ibidem, p. 64
[17] Ibidem, p. 22
[18] Ibidem, p. 27