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Fisiologia del museo contemporaneo. Introduzione a: Nicholas Serota, Esperienza o interpretazione, Kappa, Roma 2002
Autore: Michele Costanzo
Direttore della Tate Gallery di Londra dal 1988, Nicholas Serota [1] fa parte di quella ristretta élite di curatori che, provvisti di un ricco bagaglio culturale e di esperienze non strettamente circoscritte all'ambito museale, a partire dagli anni Sessanta hanno cominciato a sperimentare un diverso modo di articolare il rapporto tra arte e pubblico (nonché tra artista e spazio espositivo), intrattenendo un proficuo scambio di esperienze con differenti settori artistici quali quello cinematografico, teatrale, letterario, critico, artistico, per renderlo più prossimo alla sensibilità contemporanea, allo "spirito del tempo" presente.
In un'intervista con William Feaver, Serota ricorda questo periodo d'avvio della sua attività, in cui inizia a prefigurare il tracciato del cammino da percorrere e gli obiettivi da raggiungere: si trattava di «un'epoca in cui gli artisti», egli afferma, «cominciavano ad usare gli spazi in modo molto diverso da come avevano fatto in precedenza: non si faceva più un'arte rapportata alla dimensione dello studio, ma pensata per le gallerie o per essere installata in ambienti molto ampi. Per cui mi sono trovato di fronte a un problema: che tipo di spazio creare per esporre le opere d'arte? Non appena sono arrivato alla Tate ho esortato tutti quanti a pensare a nuovi modi di disporre i pezzi della collezione, e a rinverdire il rapporto che ciascuno spazio aveva con i singoli quadri o gruppi di opere. Quel processo continua tuttora con la Tate Modern» [2].
Lo sviluppo delle problematiche relative all'ordinamento museale, porterà ad una profonda revisione dei criteri che fino ad allora avevano presieduto alla disposizione delle opere, basati sul principio della sequenza, volti ad insinuare l'ingannevole deduzione che i lavori esclusi dalla serie non potessero pretendere di farne parte.
In effetti, la presa di coscienza di tale finzione ideologica, secondo la quale solo un ordinamento tassonomico e temporale potesse essere in grado di produrre l'immagine 'fedele' di una qualsiasi realtà, comincia a farsi strada agli inizi della seconda metà del Novecento, nel momento in cui viene posta in discussione quella visione teleologica e umanistica della storia sulla base della quale si era fondato il museo, così detto, 'moderno'.
Il rigido ordine cronologico a cui nel passato si era riferito il meccanismo organizzativo dell'esposizione, rappresenta uno degli aspetti in cui la sua istanza comunicativa, nel succedersi del tempo, si è andata sempre più caratterizzando. Seguendo tale indirizzo, opere, scuole, o movimenti artistici sono stati posti in relazione tra loro secondo una visione dello spazio museale del tutto 'lineare'. L'immediatezza di tale idea di "continuità narrativa" ha favorito il perpetuarsi, nel corso di quasi un secolo e mezzo, di tutti quei principi nati con la creazione dell'Altes Museum di Schinkel, a Berlino (1823).
Ma, al di là del dogmatismo storicistico insito in tale logica ordinatrice, quello che deve essere soprattutto rimproverato al museo moderno, osserva Yve-Alain-Bois [3], è la sua 'chiusura' verso l'esterno: un'autoesclusione dalla realtà al di fuori di sé, tuttavia, motivata da una necessità di difesa nei confronti del processo di mercificazione che sempre più tende a coinvolgere ogni aspetto della vita contemporanea.
In base a tale esigenza di salvaguardia, secondo Michel Foucault [4], è possibile allora ritenere che dipinti quali Le Déjeuner sur l'herbe, o l'Olympia di Édouard Manet, siano nati con il preciso fine di essere custoditi all'interno degli spazi del museo, per preservarli dai negativi influssi del circuito 'feticista' dell'arte-merce.
Non essendo così chiaramente connotata la linea di confine temporale che segna il punto di trapasso di tale presa di coscienza da parte degli artisti, Francis Haskell, vede il suo inizio situato in un momento antecedente, rappresentato da dipinti quali: Le Radeau de la Méduse, di Théodore Géricault, o Massacre de Chio, di Eugéne Delacroix. «Quale sistemazione eccetto un museo Géricault poteva sperare di trovare», egli si domanda, «per un dipinto di questo genere (...)? Non sto parlando delle sue implicazioni politiche (...), ma delle sue dimensioni e della rappresentazione, del tutto priva di precedenti, di un soggetto penoso e spiacevole» [5].
Per analoga ragione, secondo Haskell, anche Gustave Courbet avrebbe adottato la dimensione monumentale per il suo Enterrement à Ornans. Non a caso sarà lo stesso artista ad affermare che la pittura "modernista" non può esistere al di fuori di uno spazio specifico ed omogeneo che la contenga [6].
Come nota Bois, bisogna tuttavia aggiungere che, se da un lato concepire un'opera d'arte per il museo vuol dire farla uscire dall'inesorabile circuito del mercato, dall'altro è la stessa idea della 'chiusura' del suo spazio a lasciar intravedere i segni della sua futura crisi. Infatti, proprio quella volontà di superamento del carattere eteroclito, insito nel bric-à-brac della Wunderkammer in cui vige il senso del caleidoscopico 'disordine', che il museo moderno manifesta, non ha fatto altro che generare un tipo di omogeneità basata sull'esclusione, sulla decontestualizzazione. Tale aspetto è assai ben rappresentato dall'atmosfera rarefatta che esso propone con la 'messa in scena' di capolavori posti sul piano di una parete sempre perfettamente uniforme.
Il museo, a questo punto, afferma Brian O'Doherty, si riduce ad un White Cube il cui potere è quello di sopravanzare la percezione dell'arte stessa, producendo un bizzarro ribaltamento in cui gli stessi oggetti artistici introdotti nello spazio dell'esposizione sono chiamati ad 'incorniciare' la galleria e le sue leggi.
Diversi sono gli esperimenti realizzati durante il secolo trascorso, finalizzati a rompere questa sorta di 'prigione' in cui il museo moderno si è rinchiuso credendo di costruire un proprio rifugio, che meritano di essere richiamati alla nostra memoria: ne ricorderemo solo tre.
Il primo di questi è l'ordinamento di Wassily Kandinsky per il Museo della Cultura Pittorica di Mosca (1919) che, come mette in evidenza Guglielmo Gigliotti [7], sembra anticipare nelle sue intenzionalità programmatiche la linea di Serota perseguita nella gestione della Tate Modern. Il filo conduttore di questo impianto è rappresentato dalla tematica della "spiritualità nell'arte" (sviluppata dall'artista e teorico russo in un suo libro con il medesimo titolo). Egli parte dall'idea che le leggi della merce e la loro possibilità di intercambiabilità infinita, siano ormai un dato interiorizzato da ogni artista per cui, per 'sfondare' le pareti del museo non rimane altro che utilizzare la viva forza energetica di cui ogni opera d'arte è portatrice; egli applica, in questo modo, la sua teoria della "spiritualità" come unico filo conduttore per il riordino, non cronologico, della collezione, lasciandosi guidare dalle analogie suscitate dalla pura fenomenologia formale, tecnica ed espressiva dei materiali artistici a disposizione, o basandosi sui caratteri propri delle diverse rappresentazioni; l'«evoluzione dell'arte deve essere presentata», egli nota, «non mediante una caotica successione cronologica, bensi mostrando la rigorosa evoluzione degli aspetti spirituali» [8].
Il secondo è l'allestimento di El Lissitskij per il Landesmuseum di Hannover (1923), in cui l'architetto e artista russo, su invito di Alexander Dorner curatore del museo, realizza il Proun Raum, sulla base di una sua posizione di rifiuto della prospettiva monoculare rinascimentale, ancora fortemente presente, come egli afferma, negli allestimenti museali. Lo spazio, per El Lissitskij, non è solo «ciò che si guarda dal buco della serratura, non ciò che si vede dalla porta aperta. Lo spazio non è fatto per gli occhi soltanto, non è un quadro: vogliamo viverci dentro» [9]. Con questo, egli intende affermare che l'esposizione dell'arte è in sé espressione di una Kunstwollen, e lo spazio del museo deve poter essere vissuto 'internamente'.
Il terzo è l'intervento pittorico di Henry Matisse, La Danse (1931-33), nell'abitazione del collezionista americano Alfred Barnes. Si tratta di una decorazione murale che rappresenta un momento di svolta nella ricerca pittorica dell'artista francese, oltre che un cambiamento di scala e una semplificazione del suo registro cromatico e compositivo. Il lavoro rappresenta una delle prime opere site-specific dell'arte moderna, in cui Matisse deve sottomettersi alla preesistente configurazione della parete, facendo in modo che la sua pittura si integri ad essa. A questo si devono aggiungere le specifiche, nonché diversificate caratteristiche di luminosità dell'ambiente (il soffitto in ombra, e le parerti fortemente illuminate per la presenza di un'ampia vetrata) da cui l'autore fa derivare il particolare sistema cromatico che adotta per quest'opera: con La Danse, Matisse elabora un nuovo modo di esprimersi, che definisce "pittura architettonica" e con essa un diverso modo di rapportarsi allo spazio; il dipinto diventa, per così dire, 'ottico' e il riguardante deve lasciarsi 'assorbire' da tale visione, abbandonandosi ad un viaggio tutto mentale.
E' evidente, a questo punto, che il visitatore non resterà fermo difronte al dipinto, ma si muoverà nello spazio per poterlo meglio osservare, cominciando a percepirlo con tutto il corpo, aprendo così ad una interessante estensione delle modalità di fruizione dell'arte.
Questo murale può considerarsi frutto della "crisi della pittura da cavalletto": espressione che Clement Greenberg rivolge alla pittura americana degli anni Quaranta per definire il messaggio 'liberatorio' in essa racchiuso e che, in questo caso, ben si adatta a denotare la significatività, nonché le potenzialità non interamente esplorate dell'opera.
L'installazione di Maria Eichhorn (1993), nel MUHKA (Museum van Hedendaagse Kunst) di Antwerpen, al di là dell'interesse per la poetica proposta dell'artista, può essere considerata una sorta di sintesi metaforica del tema in questione, una sua rilettura critica assai coinvolgente che mette, peraltro, in evidenza come, dopo aver attraversato il così detto "secolo breve", tale problematica sia ancora fortemente presente.
L'artista concettuale tedesca [10], qui propone una 'riflessione' sull'architettura dei luoghi destinati all'esposizione: oggetto dell'intervento è lo stesso edificio museale, realizzato negli anni Ottanta, ma di forte impronta funzionalista. Il volume esternamente è privo di aperture, ed è uniformemente ricoperto da un intonaco chiaro. All'interno i suoi spazi, illuminati per lo più artificialmente, non rispecchiano l'asciutta semplicità che la figura architettonica trasmette. L'intervento della Eichhorn, dunque, consiste nel praticare un'apertura, una "finestra francese"[11] (così denominata), sulla parete posteriore della costruzione che si trova difronte ad un paesaggio costituito dalla suggestiva presenza del vecchio porto, del fiume Schelde, dei verdi campi che si perdono all'orizzonte. Con questo intervento, l'artista mettere in comunicazione gli spazi museali con la città aprendoli alla luce naturale e alla visione dell'ambiente limitrofo. Il suo intento non è quello di sconvolgere lo spazio architettonico esistente, ma di mettere in crisi l'illogicità della sua concezione, trasmettendo al visitatore un'energia vivificante e attrattiva che induce a sostare in contemplazione del panorama circostante.
Il processo di radicale revisione del criterio organizzativo degli spazi del museo modernista, nonché dei materiali artistici in esso contenuti, rappresenta un significativo balzo in avanti nell'ambito della ricerca espositiva che darà origine alle importanti trasformazioni che si succederanno nell'ambito museale, e di cui parla Serota nel suo scritto.
Tale diverso modo di cimentarsi in campo museografico da parte di una nouvel vague di curatori, della quale il critico inglese è un esponente di spicco, consiste soprattutto nel cercare di caratterizzare la propria azione in maniera innovativa rispetto alle valenze interpretative comunemente diffuse in questo specifico settore, per rinnovare il rapporto tra opera d'arte e spazio che la contiene. Nello sviluppo di questa ricerca, il ricco intreccio di apporti agisce come un importante stimolo nella "percezione impigrita" dell'osservatore, da un lato arricchendo di nuovi contenuti l'evento espositivo (ossia ponendo l'opera a confronto con differenti campi di interesse e di stimolo intellettuale attraverso l'interazione con culture diverse e con molteplici aspetti del reale), dall'altro determinando lo scardinamento del tradizionale approccio storico-artistico basato su periodizzazioni e scuole, suggerendo altresì un diverso modo di considerare la storia e di rapportarsi ad essa. Così, attraverso la tecnica della 'provocazione', del contrasto, della conflittualità implicitamente suscitate dalle tematiche presentate al fine di rivelare situazioni anacronistiche o culturalmente contraddittorie, essi hanno cercato di raggiungere il coinvolgimento dell'utente, che corrisponde al superamento di quella "visione distratta" a cui fa cenno Benjamin nel suo noto saggio [12].

La trasformazione della Bankside Power Station, l'imponente edificio industriale che sorge lungo le rive del Tamigi progettato da Giles Gilbert Scott (1947-63), in un museo dedicato all'arte del XX secolo (ora denominato Tate Modern), rappresenta la prima struttura espositiva londinese interamente rivolta alla contemporaneità. Tale complesso va ad aggiungersi a quello storico di Millbank, inaugurato più di cent'anni fa da Edoardo VII e riservato all'arte che va dal XVI al XIX secolo, ora ribattezzato Tate Britain.
Serota, in veste di direttore generale delle quatto sedi della Tate (comprendenti, oltre ai due edifici londinesi, quelli di Liverpool e St. Ives) è l'artefice dell'impegnativo programma di ampliamento degli spazi espositivi e di riorganizzazione della collezione che prende inizio nel 1992, nelle cui modalità organizzative si riflette totalmente la sua visione del museo contemporaneo.
La nuova galleria recentemente inaugurata, realizzata da Herzog & de Meuron, si sviluppa tutta all'interno della monumentale struttura della centrale elettrica, utilizzando i volumi un tempo occupati dalla Turbine Hall e dalla Boiler Room [13], solo minimi segni traspaiono all'esterno, discreti e congruenti, peraltro, con il carattere della costruzione.
La peculiarità dell'indirizzo seguito nell'intervento da parte degli architetti svizzeri, ha delle curiose analogie con la strategia dell'Aikido, essi hanno cercato, infatti, di utilizzare a vantaggio del progetto le valenze spaziali e formali dell'ex struttura industriale. Così, la Turbine Hall, liberata dai macchinari (sono rimaste solo due gru a ponte per il trasporto di volumi di grandi dimensioni) è stata trasformata in un immenso atrio che esercita un ruolo dominante nella spazialità del nuovo museo (150 metri in lunghezza, 23 metri in larghezza e 35 metri in altezza).
Essendo il piano di calpestio di questo corpo di fabbrica posto ad un livello inferiore rispetto alla quota stradale, per agevolare il flusso del pubblico, l'ingresso principale lungo il lato ovest è stato dotato di un'ampia rampa. Un secondo accesso è stato sistemato sul lato nord in corrispondenza della ciminiera. Internamente, il percorso d'ingresso prosegue con un ponte che attraversa ortogonalmente il vuoto del grande atrio, andandosi a concludere nel secondo corpo di fabbrica (contiguo al primo) un tempo occupato dalla Sala caldaie.
Tale volume è stato totalmente svuotato e rioccupato da una possente struttura in acciaio posta su una platea in cemento armato e suddivisa in sei piani.
Partendo dalla quota interrata, i primi due piani sono destinati ad aree comuni (bookshop, caffetteria, negozi, servizi igienici, auditorium/sala conferenze, area didattica, uffici); i tre successivi sono occupati dagli spazi espositivi.
Gli ambienti destinati alle mostre temporanee si trovano al terzo livello, mentre quelli per le esposizioni permanenti [14] al quarto e al quinto. Le sale sono caratterizzate per una diversa quantità di superficie e differente altezza; la maggior parte di esse, inoltre, riceve luce naturale tramite la modifica delle asole verticali, già presenti nel progetto di Scott, e la realizzazione dell'originale, lungo lucernario del penultimo livello, corrispondente alla fascia inferiore dei due lati del corpo vetrato che svetta, come macroscopico elemento aggiunto, sulla copertura del volume preesistente.
L'ultimo piano, che si trova all'interno di questa "trave luminosa" (come l'hanno definita i progettisti), è occupato da: restaurant, uffici, sala consiglio soci ed altri ambienti destinati alla reception.
Ciascuno dei tre piani espositivi ha un affaccio sul vuoto della Sala della turbine mediante dei bow-windows che rappresentano, a un tempo, degli elementi che contrassegnano la volumetria interna del grande atrio e degli originali affacci di tipo urbano, attraverso cui la massa dei visitatori può godere, come in uno specchio riflettente, lo spettacolo del proprio continuo brulicare in stretta congiunzione con gli eventi artistici che trovano luogo in quella spazialità del tutto singolare.
Nel vasto ambiente della grande sala d'ingresso sono state realizzate, fino ad ora, due installazioni 15[15] di notevole impegno sia dal punto di vista della complessità idetiva, che realizzativa, con il fine di trasmettere al pubblico uno stato di forte tensione emotiva; a questo deve aggiungersi la volontà, da parte dei curatori, di esprimere il senso della 'riappropriazione' (dal punto di vista visuale, ed anche corporeo) della dimensione 'fuoriscala' della sala, trasformandola in una 'camera di decompressione', un luogo di sospensione dalla quotidianità della vita: necessaria al visitatore per potersi immergere nell'esperienza del museo (soprattutto di questo museo).
Il primo intervento realizzato da Louise Bourgeois è consistito nell'inserto, nel settore est della hall, di tre alte torri in acciaio, denominate Cells: con la duplice funzione di riequilibrare, con la loro massiccia presenza, il senso di dispersione dello spazio (che si percepirebbe altrimenti all'interno), come pure di offrire la possibilità di conquistare dei punti di osservazione del vasto ambiente assolutamente inconsueti. Sopra il ponte che attraversa la hall è stata posta un'altra opera della stessa artista: l'enorme ragno Maman che sorregge sotto di sé, come in una sorta di cestello, delle bianche uova di marmo.
La seconda installazione dell'artista spagnolo Juan Muñoz, intitolata Double Bind, presenta un grande piano continuo, sospeso all'altezza del ponte pedonale, scandito da un incrocio modulare di strutture di colore nero. Tale trama è attraversata da due ascensori che salgono e scendono secondo un andamento perpetuo. Osservando la superficie della struttura dal livello superiore, essa appare cosparsa da una serie bucature (delle quali alcune sono illusorie); mentre, da quello inferiore, illuminata solo dalle aperture del traliccio strutturale, mostra delle inquietanti presenze scultoree in bronzo, rappresentanti figure umane (che corrispondono alla tematica visionaria, caratteristica nell'opera di Muñoz).
La collezione permanente, sistemata al terzo e quarto livello, si articola in quattro sezioni corrispondenti ad altrettante tematiche: paesaggio-materia-ambiente; natura morta-oggetto-vita reale; storia-memoria-società; nudo-azione-corpo; sono presenti anche singole personalità di artisti quali: Bacon, Riley, Auerbach, Cragg, Beuys.
Il criterio adottato per l'allestimento delle opere, osserva Lars Nittve, ex direttore della Tate Modern 16[16], trova corrispondenza «con un nuovo modo di guardare e di pensare alla storia: è ormai opinione comune, diffusa credo tra la maggior parte di coloro che lavorano in questo campo, che non esista una sola vera storia dell'arte moderna; noi come responsabili di un museo, siamo tenuti a prenderne atto» [17].
Il criterio generale di organizzazione delle opere, adottato dai curatori delle diverse sezioni, è stato quello di non privilegiare un percorso determinato, vale a dire impostato sulla successione cronologica delle opere, ma di organizzare, piuttosto, un tipo di ordinamento basato su gruppi tematici distinti.
Secondo la visione di Serota, infatti, è importante poter accostare lavori di pari qualità estetica per stabilire delle connessioni visive: come è il caso delle tele "bianco su bianco" di Robert Ryman messe a confronto con un'opera in metallo riflettente di Carl Andre sistemata a terra, per far emergere da queste due diverse espressioni di minimalismo analogie e contrasti. In questo, egli trova un importante punto d'origine nella visione di Thomas Stearns Eliot, secondo cui il passato deve essere riletto alla luce del presente che cambia.
E', dunque, il trionfo del relativismo e del soggettivismo critico, osserva Angela Vettese, «in opposizione a quella pretesa di oggettività che sembrerebbe stare alla base dell'idea stessa di museo: la Tate Modern non si propone come un'enciclopedia, ma come un insieme di racconti possibili, tutti passibili di essere trasformati e quindi instabili come i nostri valori etici. (...) Nicholas Serota, direttore di quella che è ora la Grande Tate, non ha avuto timore di delegare a professionisti under 50 il suo maggiore gioiello. Per almeno due anni questo gruppo ha lavorato indefessamente, dando al museo nascituro non solamente una struttura interna, ma ciò che più conta, una linea direttrice culturale» [18].
La tesi su cui si sviluppa la ricerca di Serota nel campo dell'allestimento museale -sia in senso teorico (mediante i suoi scritti e conferenze), che applicativo (attraverso la riorganizzazione della Tate Britain)- è che tale attività deve avere come fine primario quello di mettere in evidenza la specificità dei materiali artistici in esposizione, cercando di agevolare il più possibile lo sviluppo di un rapporto psicologico-intellettivo con l'utente. Il museo, fin dalle sue origini, non aveva fatto altro che riflettere la visione storica del curatore a scapito di altri punti di vista; ora, la sua mutata funzione è quella di stimolare la lettura della collezione attraverso la creazione di nuclei distinti di opere che nel loro reciproco interagire vanno a determinare delle "zone di influenza". Tutto questo ha lo scopo di arricchire la comprensione dell'arte d'oggi, in quanto il pubblico viene indotto a sperimentare il senso della scoperta attraverso una diretta, immediata osservazione delle opere esposte. Questo tende ad eliminare il senso di passività trasmesso dall'ordinamento del museo tradizionale, di tipo storicistico che Serota definisce "nastro trasportatore della storia". Percorrendo le sale organizzate secondo tale particolare criterio, osserva Frances Morris [19], il visitatore «si rende conto che il nostro allestimento non si allontana dalla storia, anzi la rivela; non livella il tempo, ma da informazioni su alcuni momenti del tempo»[20].

Nel corso della sua conferenza, Serota ripercorre le fasi salienti del lento processo di modificazione del museo, un tortuoso itinerario che porterà la struttura espositiva a trasformarsi da Wunderkammern luogo dell'abbondanza e del molteplice, a spazio dell'evento e della sperimentazione.
Tale articolato cammino avrà un'importante data d'inizio nel 1857, il momento dell'acquisto da parte di Charles Eastlake, curatore della National Gallery di Londra, della Madonna del prato di Giovanni Bellini. Con questa operazione di incremento della collezione, egli intendeva introdurre all'interno del metodo tradizionale impostato in senso cronologico, largamente diffuso in Europa, uno più rigoroso basato sull'ordinamento per scuole.
In questa prima fase storica del museo, osserva Serota, esso «stava diventando un libro di storia anziché un gabinetto di tesori»[21]. Questa concezione largamente diffusa nei musei del mondo sarà adottata fino agli inizi del nuovo secolo.
Un importante contributo all'approfondimento di questo tema avverrà nel 1929 con Alfred Barr, direttore del MoMA di New York, che introdurrà nel nuovo museo l'ordinamento per movimenti; il modello che egli proporrà, osserva Serota, avrà grande fortuna e verrà adottato, negli USA come in Europa, fino agli anni Ottanta.
Un successivo passo innovativo avverrà ancora nel 1977 con Pontus Hulten, direttore del Centre Pompidou di Parigi, il quale trasformerà lo spazio museale da luogo finalizzato alla conservazione delle opere, a spazio per l'incontro tra artisti e pubblico[22]; in questo modo il fruitore, divenuto protagonista in tale nuovo contesto, non dovrà più considerarsi un soggetto passivo, ma 'creatore' dell'evento stesso. L'elemento catalizzatore di questo diverso rapporto tra struttura espositiva e società sarà la proposizione continua di mostra temporanee.
Con la fine degli anni Ottanta i musei, dunque, iniziano ad accogliere la collaborazione degli artisti, consentendo loro di sovvertire quei criteri che in precedenza avevano guidato la disposizione delle opere e con essi «la priorità tradizionalmente data al conservatore in quanto persona che esercita un giudizio discriminante sulla scelta e sull'esposizione del museo»[23]. La peculiarità di tale concezione, è bene sottolineare, risiede nel suo tendere a far prevalere l'esperienza dell'opera rispetto all'analisi.
Un segno anticipatore di questo importante cambiamento, che si trasformerà in una prassi assai diffusa durante gli anni Novanta, Serota lo rilegge nell'allestimento di una sala del MoMA dedicato a Jackson Pollock, realizzato nel 1992 da Kirk Varnedoe[24]. Lo spazio della sala, le cui dimensioni ridotte sembrano richiamare un ambiente domestico, risulta debolmente illuminato; il raggio luminoso monodirezionato delle lampade su ciascuna tela, esalta le qualità cromatiche delle superfici pittoriche e nel contempo le separa dallo spazio complessivo della sala e dallo spettatore; qui, egli osserva, «non stiamo certamente assistendo a una lezione di storia come nella National Gallery di Eastlake, ma piuttosto stiamo vivendo l'esperienza dell'opera in sé»[25].
Questa nuova forma di esposizione monografica è il portato di due diverse componenti: una reazione all'incombente figura del conservatore, che tra gli anni Cinquanta e Sessanta, aveva favorito «un'interpretazione modernista abbastanza ristretta dell'arte del XX secolo»; e la prassi abituale delle mostre personali nelle gallerie commerciali o negli stessi musei.
D'altra parte, anche il progressivo trasformarsi degli spazi del museo in luoghi in cui l'artista direttamente produce le opere da esporre, porterà ad una trasformazione della figura del conservatore che, in questo modo, da «giudice spassionato della qualità» delle opere da lui selezionate per essere presentate al pubblico dei musei diventa, piuttosto, «un collaboratore, spesso impegnato con l'artista a portare a termine l'opera»[26].
Tre sono gli eventi cruciali che, secondo Serota, costituiscono il punto d'origine della profonda trasformazione avvenuta nel museo contemporaneo.
Il primo di questi, consiste nel mutato rapporto tra arte e spazio che la concerne; in esso l'artista esplora le più opportune forme di relazione tra l'opera e l'ambiente in cui essa si trova ad essere inserita. Tra i diversi esempi indicati, quello riguardante le trasformazioni apportate da Costantin Brancusi al proprio studio parigino, risulta particolarmente significativo. Serota presenta alcune immagini dell'archivio dello scultore rumeno: una gouache del 1918 e alcune foto che vanno dal 1920 al 1945-46; esse documentano le fasi salienti della sua maniacale ricerca di un corretto posizionamento delle opere nel medesimo contesto in cui sono state realizzate, e della fondamentale influenza, a livello percettivo, che in esso produce la qualità della luce, nonché della penombra: per l'artista l'atelier rappresenta un luogo ideale in cui, a un tempo, realizzare l'arte ed esibirne i risultati; per questa ragione, allora, in un arco di tempo più che ventennale, egli apporterà al suo interno delle continue trasformazioni con l'intento di migliorare le caratteristiche dell'ambiente attraverso un sempre più attento ed equilibrato ridisegno delle aperture e della loro collocazione.
Il secondo, riguarda l'affermarsi dell'esigenza da parte dell'artista di operare al di fuori del proprio studio, intervenendo direttamente nello spazio museale. Tra i differenti riferimenti che l'autore porta, per illustrare il suo pensiero, l'opera di Douchamps Etant donnés (1968) è quella maggiormente interessante per i suoi caratteri enigmatici e conturbanti; si tratta di un'installazione costruita dall'artista nel corso di vent'anni, in un ambiante del Museum of Art di Philadelphia, la cui caratteristica è quella di dover essere osservata attraverso due fori praticati su una vecchia porta di legno: attraverso di essa è possibile vedere un corpo nudo di donna disteso su dei rovi che regge in mano una lampada, sul fondo si scorge un paesaggio e da un lato precipita una cascata.
Il terzo, infine, concerne la consapevolezza da parte degli artisti della necessità di esercitare una riflessione sulle convenzioni del museo. Questo aspetto è documentato da diversi esempi tra i quali spicca, per la sua chiarezza programmatica, l'opera di Marcel Broodthaers, realizzata nel 1972 presso la Kunsthalle di Düsseldorf[27]. Si tratta dell'installazione intitolata Museum of Modern Art, Eagles Department; approfonditamente analizzata da Rosalind Krauss in A voyage on the North Sea. Art in the Age of the Post-Medium Condition. In essa l'artista, presentando trecento riproduzioni di aquile sotto varia forma (provenienti da musei e collezioni private di tutto il mondo), attraverso l'esasperazione della componente tassonomica del museo, che chiama la sua "finzione", «denuncia e sovverte le classificazioni e le consuetudini tradizionali del museo»[28].
Tale tema, inteso come riflessione, o come ipotesi sul futuro sviluppo del museo sia all'interno delle pareti di un edificio, che nel più ampio contesto della città e del territorio, è stato oggetto di particolare attenzione in questi ultimi anni in numerose mostre e saggi. Nella sua recente pubblicazione Art and Artifact. The museum as medium, James Putinam[29] esamina con particolare incisività tale fenomeno di ideologico scambio e, spesso, di ossessiva relazione tra artista e museo.
Un ultimo punto toccato da Serota, è la possibilità di trarre nuovi stimoli per l'approfondimento e la sperimentazione del museo contemporaneo dalle strutture extraurbane o di piccoli centri. Nella libera e creativa gestione di questi spazi alternativi, lontani dalla rigidità coattiva dell'impostazione del museo tradizionale urbano, egli vede un'importante occasione di sollecitazione. Particolarmente stimolante egli considera la possibilità di recupero in forma 'critica' di costruzioni dismesse in aree urbane periferiche, come strutture antimonumentali, oltre che ideali e 'funzionali' estensioni dello spazio espositivo; un filone questo che conta, in Europa come negli USA, numerosi e pregevoli modelli.
Tra gli esempi che egli propone ricordiamo: l'Insel Hombroik a Neuss, in Germania il cui ordinamento è basato sul sorprendente confronto-convivenza tra pezzi di grandissimo pregio d'arte contemporanea e opere di provenienza asiatica, all'interno di padiglioni in mattoni dalla semplice geometria formale e dalla mutevole qualità luminosa, distribuiti in un vasto parco naturale lungo il fiume Erft; l'Hallen Für Neue Kunst di Sciaffusa, in Svizzera la cui caratteristica è quella di perseguire un tipo di esposizione per gruppi di opere in modo da creare "zone di influenza" basate su confronti imprevisti, risignificando e vivificando la fluidità, nonché la continuità spaziale degli anonimi ambienti di un'ex struttura industriale; infine, il museo di Donald Judd a Marfa, nel Texas, la cui particolarità è quella di accogliere l'opera di un solo autore (con la minima aggiunta di alcune opere di altri artisti) tramite installazioni fisse (egli rifiuta la formula degli accostamenti temporanei) all'interno di ex edifici militari; qui le uniche modificazioni sono date dal variare della luce nell'arco della giornata e dell'immagine della natura circostante durante il ciclo stagionale: la valenza di fondo che si cerca di esaltare è quella della contemplazione.

E' interessante osservare come il museo contemporaneo, a partire da questi ultimi esempi, tenda sempre più a recuperare assetti metamorfici per trarre da tali rapporti nuove sollecitazioni alla lettura da parte del pubblico, nonché un suo più profondo coinvolgimento di tipo emotivo.
Il paradosso sembra essere che l'architettura non sia riuscita a cogliere, se non in rari casi, la laicità del museo ed abbia proseguito a progettare luoghi celebrativi della miracolosa annunciazione-apparizione dell'arte, senza calcolare le interferenze con il nuovo quotidiano collettivo.
Quello che, comunque, risulta ancora necessario è la realizzazione di uno spazio che non rappresenti più una cesura tra arte e vita, ma piuttosto si ponga come uno strumento di decompressione della complessità della vita stessa: non la riduzione del rumore al silenzio, ma la continuità attraverso un atteggiamento critico piuttosto che fenomenologico.
Sembra che i musei, come osserva Alessandra Mottola Molfino, in questa fase si trovino al centro di un guado e non sappiano più su «quale sponda approdare; se tornare su quella che hanno lasciato (i musei come torre d'avorio della conservazione); o nuotare vigorosamente (...) verso quella che i media prospettano (i musei come luoghi dello spettacolo, delle masse, delle nuove tecnologie). Nel frattempo potrebbero anche affogare, come è successo a qualche museo americano. Fermarsi nel mezzo non si può; e nemmeno si può tagliare in due il museo, come il bambino di Salomone, in modo che un pezzo torni indietro e l'altro vada sulla nuova sponda (...). Forse si può trovare una terza sponda o un'isola felice a metà del guado»[30].
Il punto che interessa Serota è direttamente rivolto a questa terza sponda; si tratta della definizione di una struttura che sia luogo di esperienza conoscitiva (che unisca in sé i due momenti dell'esperienza e dell'interpretazione), di aggregazione sociale, di crescita civile e, soprattutto, di ridefinizione di identità.
La recente esperienza della ristrutturazione del vecchio edificio della Tate di Millbank e del suo nuovo allestimento, rappresenta il punto di compimento del percorso teorico-critico di Serota, che è quello di definire arte e identità inglesi, mettendo il contemporaneo in relazione con la storia.
Seguendo questa logica, a partire dalla mostra "Figura e oggetto di culto: scultura medioevale" (inaugurata il 20 settembre 2001), che ha preannunciato l'apertura del museo (avvenuta l'1 novembre dello stesso anno), per il progetto dell'esposizione[31] egli ha posto in stretto rapporto di collaborazione due personalità apparentemente inconciliabili: il medievalista Philip Lindley e l'artista Richard Deacon[32].
L'inaugurazione presso la Tate Britain del "Centenary Development", completa dunque l'operazione culturale iniziata nel marzo del 2000 con la Tate Modern.
Il progetto realizzato da John Miller & Partners, consiste: nell'apertura di un nuovo ingresso laterale, lungo la Attembury Street, dedicato a Sir Edwin Menton; nella realizzazione di dieci nuove gallerie nel quadrante nord-ovest; e nel riassetto di altre cinque, le Linbury Galleries, destinate ad esposizioni temporanee.
L'acquisizione di nuovi spazi al museo ha consentito di far riemergere dai magazzini molte opere di prim'ordine. Ora la struttura espositiva completamente rinnovata, mostra le opere della propria collezione secondo un nuovo ordinamento. Tematiche e singole personalità di artisti si succedono, così, nei diversi ambienti secondo un principio organizzativo che non esclude una struttura di fondo ad andamento cronologico, ma come indica il titolo del presente allestimento, Collections 2002-1500: BP Display at Tate Britain, esse si manifestano in forma rovesciata, ossia partendo dal presente, vale a dire dal vincitore dell'ultimo Turner Prize, lo scozzese Martin Creed. E questo, per rimarcare un forte accento sul contemporaneo -che corrisponde, in definitiva, all'occhio del visitatore che guarda: sia l'arte del passato che quella del presente- stabilendo, nel contempo, un chiaro e stretto legame con la Tate di Bankside.

[1]Fin dall'inizio della sua carriera professionale Serota si è occupato dell'organizzazione di mostre d'arte: prima come Regional Art Officer all'Arts Council e poi come direttore del Museum of Modern Art di Oxford e della Whitechapel Art Gallery di Londra.
[2]William Feaver, L'arte vista da Nick Serota, «Il Giornale dell'Arte» n. 184, gennaio 2000.
[3]Yve-Alain Bois, Esposizione: estetica della distrazione, spazio della dimostrazione, «Rivista di estetica» n. 16, 2001.
[4]Michel Foucault, Un "fantastico" da biblioteca, in: Scritti letterari, Milano 1984, pp. 138-39.
[5]Francis Haskell, Artisti e musei nell'Europa del secolo XIX, in: Le Metamorfosi del gusto, Studi su arte e pubblico nel XVIII e XIX secolo, Torino 1989, p. 214.
[6]Questo porterà il pittore francese a realizzare, in occasione dell'Esposizione Universale del 1885, un apposito padiglione per esporre le sue opere, tra cui il celebre Atelier.
[7]Guglielmo Gigliotti, Kandinsky profeta della Tate Modern, «Terzo Occhio» n. 2, giugno 2001.
[8]Wassily Kandinsky, Lo spirituale nell'arte, Milano 1989, p. 57.
[9]El Lissitskij, Prounenraum, Grosse Berliner Kunstausstellung, in: Sophie Lissitskij-Küppers, El Lissitskij-Maler, Architekt, Typograf, Fotograf. Erinnerungen, Briefe, Scriften, Dresden 1967, p. 361.
[10]In effetti, nella sua ricerca la Eichhorn tende a sviluppare un rapporto che tende a fondere l'indirizzo di Fluxus con quello dell'arte concettuale.
[11]Alla fine della manifestazione, il vuoto della parete è stato richiuso, anche se le tracce dell'intervento non sono state totalmente cancellate.
[12]Si tratta dello scritto, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner tecnischen Reproduzierbarkeit, pubblicato la prima volta nel 1936 a Parigi, per la rivista «Zeitscrift für Sozialforschung».
[13]La Sala dei condensatori a sud non è stata ancora recuperata.
[14]L'idea dei curatori è quella di mantenere la struttura basata su tematiche per un periodo che va dai tre ai cinque anni. All'interno delle quattro sezioni sono previsti vari tipi di mostre: monografiche, tematiche e documentarie. In questa rotazione le opere della collezione verranno presentate secondo punti di vista differenti.
[15]Tra la prima e la seconda installazione, bisogna ricordare, è stata realizzata nella Tate Modern un'importante mostra intitolata "Century City". Essa sviluppava il tema delle metropoli come centro propulsore delle avanguardie, percorrendo un arco temporale che andava dal 1919 al 2001. Si trattava di una serie di 'rielaborazioni critiche' di città; quella dedicata a Londra, a cura di Emma Dexter, esponeva opere di singoli artisti attraverso una struttura che poteva ricordare una strada della capitale britannica; l'instervento, che occupava il grande vuoto della Turbine Hall, al di là delle intenzionalità della manifestazione, metteva in particolare evidenza il ruolo dei tale spazio come 'luogo urbano', nonché caratteristico filtro tra città è museo.
[16]La responsabilità della direzione è stata assunta provvisoriamente da Serota.
[17]Cit. in: Louisa Buck, Le avanguardie esalTate, «Il Giornale dell'Arte» n. 188, maggio 2000.
[18]Angela Vettese, cit. in: La Tate Modern: bene gli architetti, benino i curatori, «Il Giornale dell'Arte» n. 189, giugno 2001.
[19]Curatrice e coordinatrice l'allestimento inaugurale della mostra.
[20]Cit. in: Louisa Buck, Le avanguardie esalTate, «Giornale dell'Arte n. 188, op. cit..
[21]Dal testo di Serota.
[22]Rielaborando le idee pionieristiche del "museo aperto" di Willem Sandberg, sperimentate circa un decennio prima (dal 1954 al 1963) presso lo Stedeljik Museum di Amsterdam.
[23]Dal testo di Serota.
[24]Direttore del Dipartimento di Pittura e Scultura del MoMA.
[25]Dal testo di Serota.
[26]Dal testo di Serota.
[27]L'opera è stata oggetto di una conferenza per il Walter Neurath Memorial (e relativa pubblicazione), da parte di Rosalind Krauss, A Voyage on the North. Art in the Age of the Post-Medium Condition, London 1999.
[28]Dal testo di Serota.
[29]Curatore del Contemporary Arts & Cultures Programme del Bitish Museum.
[30]Alessandra Mottola Molfino, I musei in mezzo al guado: chi si ferma è perduto, «Il Giornale dell'Arte» n. 185, febbraio 2000.
[31]Si tratta di 22 sculture, sistemate nello spazio lungitudinale della galleria centrale.
[32]L'intento della mostra è stato quello di affermare due importanti aspetti teorici e storici: da un lato la connessione tra l'arte britannica e quella continentale, e dall'altro il peso della devastazione iconoclasta della Riforma Protestante che ha causato la distruzione del 98% della scultura religiosa inglese. Per questa ragione la mostra ha voluto 'rompere' la barriera del XVI secolo (corrispondente al pezzo più antico della collezione del museo, un dipinto John Bettes del 1540), giungendo a ritroso fino al XII secolo: per sottolineare che la storia dell'arte inglese ha origini ben più antiche.