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Bernard Tschumi, Event-Cities 2, The MIT Pess, Cambridge, London 2000
Autore: Michele Costanzo
Quello che caratterizza l'espressione artistica del nostro tempo, secondo Bernard Tschumi, è la sistematica contaminazione che investe la realtà in ogni suo aspetto, è la confusione dei generi, il senso di instabilità e di continuo cambiamento che determina l'esistere. L'architettura che riassume in sé concetto ed esperienza, spazio e uso, struttura e immagine, non può più considerare tali categorie in forma separata, ma deve perseguire un principio di mutua contaminazione attraverso nuove combinazioni di programmi e spazi.
Sulla base di tale posizione antifunzionalista, Tschumi concentra la sua ricerca sullo sviluppo del rapporto tra architettura ed evento: più precisamente, nella declinazione della tesi per cui non c'è architettura senza evento, senza azione, senza attività, senza programma.
In questo modo, l'architettura risulta essere una combinazione priva di gerarchie, o precedenze tra spazi, eventi, movimenti. L'esperienza individuale si configura, allora, come un insieme di eventi organizzati in modo libero, ma resi 'strategici' dall'architettura: l'apparente disordine, deve essere letto come un tipo di aggregazione che si sviluppa secondo un nuovo concetto di struttura.
A partire dagli anni Settanta, Tschumi porta avanti la sua ricerca, prima sul piano della pura speculazione teorica e poi su quello della prassi progettuale, mantenendo tra i due indirizzi un livello di serrato interscambio: la pubblicazione di Event Cities (1994) e di Architecture and Disjunction (1996) ne rappresentano, in qualche modo, la sintesi. Pur profondamente diversi per finalità e struttura, i due testi risultano strettamente interrelati: il primo considera la prassi progettuale come verifica dell'impostazione concettuale della ricerca; il secondo fa il punto sulla riflessione teorica in quanto impulso generativo della ricerca progettuale.
Event Cities 2, anche se in parte costituisce un'ideale prosecuzione di Event Cities, presenta tuttavia notevoli margini di differenza che andremo ad esaminare.
Il dato comune da cui i due volumi prendono le mosse, e che costituisce, peraltro, un aspetto di particolare interesse, è la volontà di affrontare la complessa questione del comunicare l'architettura attraverso le pagine di un libro. L'autore non intende perseguire il consunto modello della tradizione, consistente in un "serioso contributo" scritto accompagnato da "fotografie patinate"; il suo obiettivo è quello di allontanarsi il più possibile dal "trattamento superficiale" delle intenzionalità dell'opera, indirizzando il proprio sforzo nell'individuazione di un più idoneo criterio per delineare le valenze del processo ideativo, impiegando differenti mezzi per registrare gli eventi che si sono svolti, o si svolgeranno all'interno di uno spazio configurato.
Si tratta di ampliare la limitatezza del medium, la cui capacità di trasmissione è di per sé incompleta, parziale, frammentaria; adottando l'espressione 'frammento' nell'accezione freudiana: non come rottura dell'immagine o di una totalità, quindi, ma come un aspetto dell'articolata molteplicità di un processo.
L'architetto, allora, parte da un'organizzazione di frammenti, porzioni di immagini, legate tra loro dall'idea del movimento prodotto dalla mano nell'atto dello sfogliare le pagine, che impone alle figure il dinamismo di una sequenza che le rende vive; è un gesto che nasce dal cercare e che trasmette un sentimento di attesa che, a sua volta, viene interiorizzato. E' come correre verso una seduzione che sfugge nel momento in cui si è sul punto di raggiungerla, andando, così, ad sollecitare alcune delle più intime "operazioni dell'inconscio".
Ma Tschumi nella sua ricerca non guarda solo alla tecnica del montaggio cinematografico; egli è, altresì, attratto dal desiderio di avvicinarsi alla tradizione del libro d'artista, in cui quello che è maggiormente considerato è l'opera d'arte in se stessa, piuttosto che lo strumento di diffusione dell'arte. Ne consegue che il libro non è più soltanto un semplice contenitore indifferente al contenuto e "la forma-libro" diventa, così, "parte integrante dell'espressione e della significazione dell'opera realizzata attraverso il libro stesso" (Anna Moeglin-Delcroix 1985).
Pur strutturati sulla base di questo fil rouge che li attraversa entrambi, i due libri procedono secondo un'organizzazione dei materiali assolutamente autonoma. In questo modo, se in Event Cities i progetti (dal 1986 al 1993) sono organizzati secondo tre capitoli intitolati: praxis, cities, events; in Event Cities 2, le opere (dal 1993 al 1999) sono scandite secondo tre differenti capitoli, che sono: Materialization of Concepts, Strategies and Devices, Program and Event.
Ma, soprattutto, il secondo volume si caratterizza per l'introduzione del concetto di "strategia" come nuova tematica aggregativa che, peraltro, non esclude i punti di riferimento precedenti, della "condizione urbana" e del programma.
Il nuovo soggetto è il "generatore di eventi", un dispositivo (una struttura) che viene inserita all'interno dello spazio architettonico per favorire, o provocare gli eventi. Esso prende forma dal ribaltamento dei termini su cui si fonda il comune modo intendere la prassi progettuale, ovvero "progettare le condizioni piuttosto che condizionare il progetto".
Per l'architetto, questo vuol dire indirizzare i flussi di energia, prodotti dal movimento dei corpi, rendendo lo spazio come il luogo degli eventi (programmati e non) da cui l'architettura trae forza per il suo continuo rinnovamento.
Il programma e l'evento sono, dunque, due termini distinti, ma strettamente interrelati: il primo risponde ad una molteplicità di bisogni sociali e individuali; il secondo è un insieme di avvenimenti imprevisti che, se da un lato possono rivelare potenzialità e contraddizioni del programma stesso, dall'altro contribuiscono a modificarle secondo modalità più appropriate.
Sulla base di questa scelta di 'strategia', ciascun progetto deve essere considerato come una "piccola città" e la sua organizzazione, in questo senso, assume un valore cruciale.
Un ultimo aspetto da segnalare riguarda la maniera sottile in cui l'autore lascia emergere i segni di continuità e di coerenza del suo fare, pur nel susseguirsi di diverse fasi: è così che il libro prende il suo avvio con Rituals, una sequenza di disegni-grafici-foto che fa riferimento agli ormai lontani Screenplays (e, più in generale, all'origine della sua ricerca teorico-progettuale); fanno seguito, poi, le immagini del progetto del Parc de La Villette (non incluso nel volume precedente) che rappresenta la prima opera realizzata, quella in cui la ricerca inizia a 'prendere forma' nel concreto.